Italiani in Germania. Memorie, racconti e biografie di ieri e di oggi
Progetto di Luciana Mella
Nel mio girovagare giornalistico per la Germania ho avuto la fortuna di incontrare nel 2012 il signor Luigi Gallinaro. Nel 1957, poco più che ventenne, aveva lasciato la provincia di Caserta alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Una persona solare, piena di energie, intraprendente e sempre di ottimo umore. La sua tenacia e la sua intraprendenza lo hanno portato dal lavoro nei campi nel Baden-Württemberg alla catena di montaggio della Volkswagen di Hannover. Un uomo straordinario, che ha sempre anteposto il noi all’io, non tralasciando mai il suo impegno civile e politico a favore degli italiani in Germania.
Un emigrante che nella sua valigia di cartone più che i ricordi vi aveva messo il futuro. Insomma una meravigliosa biografia, che vale davvero la pena di essere letta.
Biografia di Luigi Gallinaro, emigrato nel 1957 in Germania.
Gli ostacoli non sono mai problemi. Sono solo sfide da affrontare.
La terra d‘origine
Sono nato il 1° giugno 1935 a Piedimonte di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. La mia era una famiglia di contadini, eravamo in sei persone: io sono il secondo di quattro fratelli. Mio fratello maggiore si chiamava Guido e le mie sorelle minori, Maria e Amelia. Avevamo dei terreni e la nostra vita la passavamo nei campi. Ricordo ancora che già da piccolo dovevo sempre aiutare i miei genitori: estate o inverno c‘era sempre qualcosa da fare. Quando nel 1940 scoppiò la Seconda Guerra mondiale io avevo solo cinque anni, eppure quegli anni non me li dimenticherò mai. Soprattutto gli ultimi. Il mio paese si trova a 30 chilometri da Formia [1] e a 60 chilometri da Montecassino [2]: praticamente noi avevamo l‘impressione di vivere in mezzo all‘inferno. Ricordo che avevo appena iniziato ad andare a scuola quando Piedimonte fu occupato dai tedeschi e l‘edificio scolastico venne trasformato nella sede del comando militare. Noi bambini non potemmo più frequentare le lezioni e fummo obbligati a restare a casa. Purtroppo, tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944, dal mio paese diversi civili (uomini tra i 16 e i 65 anni e una donna di 18 anni) furono deportati in Germania. Alla fine del 1944 ci furono anche 25 vittime per un colpo di cannone sparato per sbaglio dagli inglesi, convinti che i tedeschi fossero ancora in paese, mentre loro si erano già ritirati verso Montecassino. In ogni caso, io dovetti aspettare fino alla fine della guerra per riuscire a prendere la licenza elementare: mi fu possibile solo frequentando per tre anni le scuole serali.
Fortunatamente alla fine del conflitto bellico la mia famiglia non aveva subito troppi danni. Avevamo ancora vigneti, oliveti, qualche bestia e i campi dove coltivavamo il frumento e gli ortaggi. L‘unica cosa che ci mancava era il denaro contante. Per comprarci i vestiti o le scarpe dovevamo vendere i nostri prodotti: un sacco di fagioli, un quintale di grano, oppure 50-100 litri di vino o di olio. Non stavamo bene, ma rispetto ad altre famiglie ce la cavavamo.
Nel frattempo ero diventato un po‘ più grandicello e dovevo scegliere cosa fare nella vita. Siccome oltre al lavoro nei campi non vi erano altre alternative, decisi di imparare il mestiere di barbiere. Appena finito di aiutare i miei in campagna, verso le 17.00-18.00, mi cambiavo e correvo a bottega nel salone del barbiere del paese. Allora dalle mie parti i barbieri stavano aperti fino alla sera tardi, a volte fino a mezzanotte – l’una, perché chi lavorava in campagna si doveva alzare molto presto e finiva molto tardi. E così gli uomini andavano a farsi fare la barba e i capelli la sera. La settimana del barbiere era molto lunga: anche la domenica il negozio restava aperto fino alle 13.00. Per me era molto faticoso, anche perché non venivo pagato. Di tanto in tanto prendevo qualche mancia, ma era davvero poca roba. Nonostante tutto ho continuato a dividere la mia vita tra i campi e il barbiere, fino a quando, agli inizi degli anni Cinquanta, aprirono le prime scuole per l’apprendistato. Poiché volevo continuare a studiare, mi iscrissi a Formia e frequentai per quasi due anni la scuola di avviamento industriale. Seguivo il corso di aggiustatore meccanico al banco, come si chiamava allora. Mi sarebbe piaciuto cambiare lavoro e magari lavorare in una fabbrica. Nel 1955 purtroppo la scuola fu chiusa e venne trasferita a Latina. Per me Latina era troppo distante: allora era difficile spostarsi con i mezzi pubblici ed io non avevo nessun mezzo di trasporto. Fu così che non riuscii a portare a termine il mio corso di formazione. Tornai a malincuore a lavorare al negozio di barbiere. L‘unica passione che nel corso degli anni ero riuscito a coltivare, senza mai smettere, era quella del calcio.
Pur facendo mille sacrifici, continuavo ad allenarmi insieme alla squadra del mio paese e prendevo parte a tornei locali.
La decisione di partire per la Germania
Oltre al lavoro in bottega e all‘aiuto ai miei in campagna, nel tempo libero davo una mano nella sede della Camera del Lavoro della CGIL, che era stata aperta da noi in paese. L‘ufficio, tra le altre attività, aiutava anche a sbrigare le pratiche per chi voleva andare a lavorare all‘estero. A fine dicembre del 1955 erano stati firmati gli accordi tra l‘Italia e la Germania [3] e già agli inizi del 1956 una persona aveva fatto richiesta per partire. Io ci stavo pensando, ma non ero molto convinto. Il giorno però in cui mi arrivò la notizia che mi avevano scartato dal servizio militare, decisi che era arrivato il momento di presentare la domanda. Del resto, dal paese un po‘ alla volta i miei coetanei, e non solo, iniziavano ad andarsene all‘estero [4]. Già negli anni Cinquanta diversi miei compaesani erano partiti per la Svizzera [5]: io però in Svizzera non ci volevo andare, perché da quanto avevo sentito dire e da quello che avevo letto, lì erano molto chiusi e duri e non mi attirava per niente. Siccome per la Germania cercavano solo braccianti agricoli, andai al mio Comune e mi feci cambiare la professione sul documento d‘identità. Sulla mia tessera di riconoscimento c‘era scritto che facevo il barbiere e così non mi avrebbero mai preso. All‘Ufficio anagrafe furono gentili e scrissero che facevo il contadino. La maggior parte delle persone della mia zona lavoravano nei campi e quindi non fu un problema fare il cambio. La nostra era una terra molto fertile, tanto che la provincia di Caserta, in passato, veniva chiamata la “Terra di lavoro” [6].
Per un paio di mesi non seppi più nulla della mia domanda, fino a quando una mattina non mi arrivò un avviso dove c‘era scritto che dovevo presentarmi a Verona.
Il lungo viaggio
Il giorno in cui partii non avevo ancora compiuto 22 anni. Era marzo e dai noi le giornate iniziavano ad essere tiepide e piacevoli e alcuni alberi erano già in fiore. Insieme ad altri miei conterranei ci recammo prima a Roma, e poi, una volta arrivati alla stazione Termini, ci riunirono insieme ad altre persone che avevano scelto di andare in Germania e ci fecero salire su un treno per Verona. Ricordo che allora in Italia tutti i treni andavano ancora a carbone e l‘unica tratta elettrificata era quella tra Roma e Napoli. A Verona rimasi fermo tre giorni. Venni visitato da una Commissione di medici tedeschi che non andavano tanto per il sottile e che mi fecero molte domande. La notte dovetti dormire in uno stanzone, su un letto a castello, insieme ad altre quindici persone a me tutte sconosciute. Faceva molto, molto freddo, ma soprattutto di quei giorni mi ricordo la nebbia, che io non conoscevo per niente. Passata la visita mi fecero salire su un treno diretto a Monaco di Baviera. Era un treno tutto rotto con la locomotiva a carbone, me lo ricordo come fosse oggi. A Monaco di Baviera gli addetti degli Uffici di collocamento ci divisero a scaglioni e per destinazioni: io fu mandato a Wagenschwend, un paesino distante una ventina di chilometri da Mosbach, centro importante nel Baden-Württemberg. Così presi un treno in direzione Stoccarda e poi a Stoccarda cambiai ancora.
L‘arrivo a Wagenschwend
Era il 14 marzo 1957 e faceva ancora molto freddo. Alla fine del mio lungo viaggio, giunto a Mosbach, mi venne a prendere il proprietario dell‘azienda agricola dove ero stato assegnato. Era un omone alto quasi due metri: ricordo che mi guardò con severità dall‘alto in basso. In effetti io avevo la struttura fisica di un «fringuellino», e sembravo un ragazzino. Ebbi l‘impressione che si stesse chiedendo come avrei potuto essergli d‘aiuto nel lavoro nei campi. Certo non poteva immaginare che avevo già molta esperienza e tanta forza, perché sui campi io ci ero nato. Con la macchina mi portò a Wagenschwend, il paesino dove c‘era la sua fattoria. Per primo mi fece vedere la mia stanza. Era una stanzetta sopra il granaio, con le pareti di legno, tutta chiusa e senza finestre. C’era un letto con un materasso di paglia, una sedia, un armadietto senza specchio e un lavabo e non era riscaldata. In quella stanza ho patito tanto freddo, anche perché, così come molti altri miei connazionali, ero arrivato in Germania con un solo paio di scarpe leggere e non avevo né scarponi né stivali. Non avevo nemmeno il cappotto, poiché da noi gli indumenti pesanti non si usavano. Avevo una giacca, un maglione e una camicia, di più non mi ero portato. Il lunedì mattina, ero lì da due giorni, il mio datore di lavoro mi chiamò e a cenni mi fece capire che con le scarpe che indossavo non potevo lavorare. Mi diede un paio di stivaloni, saranno stati il 45-46…ci potevo sguazzare dentro!
In campagna ancora non si poteva far nulla, perché i campi erano ancora tutti ghiacciati, e così la mia prima occupazione fu quella di tagliare gli alberi nel bosco. Si faceva la legna per venderla. Tagliavamo i fusti e poi a mano, con l‘ascia, dovevamo pulirli, togliere i rami e la corteccia. Era un lavoro piuttosto pesante.
Già dopo qualche giorno dal mio arrivo iniziai però a non sentirmi a mio agio, ad essere un po‘ insofferente per la situazione che stavo vivendo. Il cibo era terribile: a tavola c‘era sempre solo una specie di zuppa che aveva davvero un saporaccio, ma a quello avrei potuto anche abituarmi. Il problema era che il proprietario mi trattava al pari di uno schiavo. Pretendeva che facessi tutto quello voleva, mi comandava a destra e a sinistra e io non sono mai stato schiavo di nessuno. Unico aspetto positivo era che aveva un figlio della mia età e con lui provavo a distrarmi un po‘ parlando di calcio, anche perché a me piaceva molto giocare a pallone e il calcio mi mancava tanto. Ogni volta però che mi sentiva chiacchierare con il figlio mi sgridava, dicendomi che ero venuto in Germania per lavorare e non per parlare di calcio. In ogni caso, provavo una grande frustrazione a non poter comunicare con le persone e avevo una grande voglia di capire e farmi capire. Così cercai sin da subito di imparare il tedesco. Prima di partire da Verona ci avevano dato in dotazione un libricino, una specie di prontuario italiano-tedesco, con frasi fatte per diverse situazioni ed io, la sera, visto che nel paesino dove ero non c‘era niente da fare, mi mettevo a studiare nella mia cameretta. Leggevo e imparavo le frasi a memoria e poi le riscrivevo su un quadernetto, assieme alle parole nuove che avevo sentito durante la giornata. Questo mi ha aiutato molto ad apprendere abbastanza velocemente la lingua tedesca, a farmi capire e ad avere una vita meno isolata e più sociale. In ogni caso a Wagenschwend non resistetti molto. Non erano ancora passati due mesi dal mio arrivo che decisi di andarmene. Senza pensarci su molto, dall‘oggi al domani, comunicai al fattore che me ne sarei andato, tanto che non mi diede nemmeno i soldi che mi spettavano.
Passaggio a Stoccarda
Sapevo che, in caso di problemi o difficoltà, la cosa da farsi era quella di recarsi al Consolato italiano più vicino. Così andai direttamente al Consolato di Stoccarda, dove ebbi la fortuna di incontrare un Console che era davvero una brava persona. Si chiamava Gerardo Zampaglione [7]. Oltre ad essere molto cordiale con tutti, era un diplomatico molto impegnato, tanto che aveva scritto un libro sulle norme consolari. Gli raccontai la mia storia e lui mi promise che avrebbe fatto di tutto per farmi restare in Germania. A quei tempi, quando uno litigava con il datore di lavoro, non c‘era molto da discutere: ti consegnavano una lettera, scritta su un foglio giallo, e ti rimandavano a casa. Lo stesso accadde anche a me: l‘Ufficio del Lavoro di Stoccarda mi imponeva infatti di rientrare in Italia. Il Console voleva però che io avessi un‘altra possibilità e così si mise alla ricerca di un nuovo posto di lavoro per me. Rimasi 14 giorni a Stoccarda e, nel frattempo, feci amicizia con un mio coetaneo di Lecce, di cui purtoppo non ricordo più il nome, che aveva avuto anche lui problemi sul posto di lavoro. Dal Consolato ricevevamo 14 marchi al giorno e la notte andavamo a dormire in un dormitorio insieme ai senzatetto. La valigia la dovevamo lasciare al deposito della stazione di Stoccarda, perché il posto dove stavamo non era molto sicuro e correvamo il rischio che ci rubassero tutto durante il sonno. Dormivamo addirittura vestiti, per la paura di non ritrovare i nostri indumenti al risveglio. Il Console Zampaglione tentò in tutti i modi di farci assumere allo stabilimento della Mercedes-Benz, ma poiché noi avevamo il contratto stagionale agricolo, non fu possibile. Alla fine, dopo tante insistenze, ci assegnarono un posto di lavoro nel settore agricolo nella zona di Göppingen, sempre nel Baden-Württemberg, in un paesino che si chiamava Donzendorf.
E così tornai a lavorare nei campi.
Era il mese di maggio del 1957. Il mio nuovo datore di lavoro era un Conte, che possedeva diverse terre e fattorie sparse in tutta la regione. Nell‘azienda agricola dove fui assegnato eravamo in 15 addetti.
Si lavorava tanto, ma mi trovavo bene. Purtroppo dopo qualche mese, ad agosto, mi sentii male e mi dovettero operare d‘urgenza di appendicite. Fui ricoverato alla clinica universitaria di Göppingen e mi ritrovai in stanza con un ragazzo tedesco che aveva più o meno la mia stessa età. Ho un ricordo molto bello di quei giorni passati in ospedale: parlavo poco la lingua, ma la famiglia del mio compagno di letto quasi mi adottò. Furono molto gentili con me, mi portavano i panni lavati, a volte anche qualcosa da mangiare. Appena dimesso tornai alla mia fattoria e lì ci rimasi fino a dicembre.
Con il mio amico di Lecce, il fine settimana, avevamo un po‘ di tempo per andare a Göppingen oppure a Stoccarda. Lui mi raccontò che aveva degli amici e conoscenti a Celle, nella Bassa Sassonia, che avrebbero potuto aiutarci a trovare un altro lavoro. Tramite i suoi contatti trovammo dopo poco tempo una nuova occupazione e così, nel gennaio del 1959 ci trasferimmo a Gockenholz, vicino a Celle. La nostra destinazione era sempre in un‘azienda agricola, dove rimasi fino alla fine di quell‘anno.
Qui mi trovai meglio, tanto che avevo anche ricominciato a giocare a calcio. Riuscii ad entrare in una delle squadre della cittadina di Celle, la TuS Celle FC e ad allenarmi con loro.
Purtroppo, però, il mio datore di lavoro non voleva che giocassi a calcio: del resto, in estate, ci faceva lavorare anche la domenica mattina fino alle 13.00. A malincuore fui costretto a lasciare la squadra!
Devo comunque dire, che a parte qualche piccolo episodio non piacevole, io mi sono inserito bene sin da subito nella comunità tedesca. So di essere stato abbastanza fortunato, perché non a tutti i miei connazionali è andata così bene. Credo che questo dipenda, in modo particolare, dal mio carattere: sono una persona solare, molto spontanea e ho sempre cercato il contatto diretto con le altre persone.
Ricordo che la prima domenica che giocai a Celle avevano messo in paese e sui lati del campo di calcio dei grandi manifesti con il mio nome. Per me fu una bella sorpresa. Del resto, ero una novità e anche una rarità: ero il primo straniero, italiano, che giocava in una squadra di calcio locale. Era venuta tantissima gente a vedere la partita e facevano il tifo per me. E così da lì iniziai a farmi delle amicizie, sia con ragazzi che con ragazze. Mi sentivo voluto bene. Devo dire, con molto orgoglio, che in quel paese ho anche lanciato una nuova moda. Negli anni Cinquanta in Italia, dalle mie parti, i ragazzi portavano le camicie fuori dai pantaloni, facendo un nodo davanti. La prima domenica che andai a passeggio, uscii proprio vestito all‘italiana, anche perché a me piaceva vestire elegante. Ricordo che tutti mi guardarono un po‘ perplessi. La domenica successiva però alcuni ragazzi mi avevano copiato e anche loro erano in giro con la camicia annodata davanti.
Nella azienda dove lavoravo, eravamo solo in sette persone; io ero l‘unico italiano, gli altri erano tedeschi. L‘unico aspetto negativo era che economicamente non venivamo trattati bene: la paga mensile bastava giusto appena per arrivare a fine mese. Con i miei compagni di lavoro ero entrato abbastanza in confidenza, anche perché nel tempo libero mi arrangiavo come barbiere e tagliavo loro i capelli. Alcuni di loro avevano amici che lavorano nello stabilimento della Volkswagen [8] di Hannover e mi dicevano che in fabbrica si guadagnavano molti soldi e si faceva una vita migliore.
Così iniziai a pensare a come poter cambiare lavoro ed entrare alla Volkswagen.
Passaggio ad Hannover
Una domenica mattina presi un treno per Hannover e iniziai a gironzolare per la stazione. Allora gli italiani avevano come punto di riferimento la stazione per incontrarsi, scambiare quattro chiacchiere e qualche informazione. Ad un certo punto, in un angolo, sentii parlare italiano, così mi avvicinai e chiesi se erano italiani. Ci presentammo ed entrammo subito in confidenza. Io raccontai cosa facevo e loro mi dissero che lavoravano come giardinieri in una serra. Chiesi subito se per caso cercassero qualcuno e, per mia grande fortuna, dopo una settimana si liberò un posto. Feci così di nuovo la valigia e mi trasferii ad Hannover. Alla stazione venne a prendermi il mio nuovo amico, si chiamava Mario, che mi portò alla serra dove lavoravano altri cinque italiani. Devo dire che anche lì non sono rimasto molto, anche perché io aspiravo a qualcosa di meglio, avevo altre mete.
Un giorno andai a tagliarmi i capelli in un salone non lontano da dove lavoravo e provai a chiedere al proprietario se per caso cercasse qualcuno che lo aiutasse. A quei tempi i parrucchieri italiani erano abbastanza ricercati, perché i tedeschi iniziavano ad andare in Italia in vacanza e apprezzavano la nostra moda e il nostro stile di vita. Per mia fortuna il proprietario della barberia mi invitò a presentarmi il giorno dopo da lui per fare una prova. Feci la prova e lui mi disse che voleva assumermi. Siccome già un po‘ il tedesco lo parlavo, gli spiegai che io avevo un contratto per lavorare in agricoltura e che l‘Ufficio del Lavoro avrebbe fatto problemi. Fu lui stesso a chiamarli e mi mise in contatto con uno degli impiegati, il signor Fischer, ricordo ancora perfettamente il suo nome. Questo impiegato fu molto comprensivo: mi diede il permesso di lavorare dal parrucchiere e, nel giro di qualche giorno, sistemò ufficialmente la mia posizione. Il mio contratto agricolo fu definitivamente strappato. Per me fu una vera liberazione: finalmente potevo muovermi più facilmente e cercare lavoro anche in altri ambiti. Devo dire che il signor Fischer, in un certo modo, si approfittò anche di me: quando all‘Ufficio del Lavoro arrivavano italiani che non capivano una parola di tedesco spesso mi chiamava per fare un po‘ da interprete. E io ci andavo, anche perché anche per me era un‘occasione per sapere se c‘erano altri lavori più interessanti. Io volevo a tutti i costi entrare alla Volkswagen.
Nel frattempo, grazie a Domenico, mio conterraneo originario di Sant’Angelo di Alife (CE), che lavorava in un‘azienda agricola alla periferia di Hannover, e che avevo per caso rincontrato in città dopo averlo perso di vista al centro di reclutamento di Verona, riuscii a prendere una stanza in affitto tutta per me. Certo, la stanza si trovava adiacente alla stalla per le mucche, ve ne erano circa duecento, e la sera quando rientravo dovevo stare attento a dove mettevo i piedi.
Per arrotondare un po‘ lo stipendio, la sera, il sabato pomeriggio e la domenica, tagliavo i capelli a domicilio. La mia paga non era molto alta: alla settimana prendevo 70 marchi e dovevo pagarmi l‘affitto, l‘abbonamento del tram e il mangiare. Ci sono stati giorni in cui non mettevo niente di caldo nello stomaco, mi nutrivo solo di panini e scatolette. Feci quella vita per pochi mesi, perché poi, tramite una famiglia tedesca che viveva vicino a me, e con cui avevo fatto amicizia, riuscii a fare la domanda e ad essere assunto alla Volkswagen. Passai la visita medica e, il 21 settembre 1960, pieno di gioia e orgoglio, varcai il cancello della fabbrica. Qui ci sono rimasto 35 lunghi anni, fino al 1995, anno del mio pensionamento. Ci tengo a precisare che ho un ricordo speciale e caro di quella famiglia che mi aiutò molto e che di cognome faceva Tute. Erano una coppia con quattro figli, di cui io ne conobbi solo tre, Heinz, Albert (che lavorano alla Volkswagen) e Inge. Il primogenito era purtroppo morto durante la Seconda Guerra mondiale in Italia e riposava nel cimitero militare di Pomezia, in Provincia di Latina. Nel 1961 Heinz, con sua moglie Käte, si recò sulla tomba del fratello a Pomezia, per poi proseguire per il mio paese natale, che distava circa novanta chilometri. Andarono a conoscere e a far visita ai miei genitori. Quell‘anno purtroppo io avevo subito un infortunio sul lavoro e non potei tornare a casa. Ci andarono loro per me: erano di fatto diventati la mia seconda famiglia.
Il lavoro alla Volkswagen e la vita ad Hannover
In quel periodo lo stabilimento della Volkswagen di Hannover era ancora piccolo: quando entrai io ci lavoravano circa 5500 operai. Solo più tardi, dopo il 1965, lo stabilimento fu ampliato e passammo a quasi 30.000 addetti. Allora si produceva solo il pulmino VW-Bus e io fui destinato come addetto alle presse. Dopo circa due anni, nel 1962, l’ufficio personale mi chiamò e mi disse che mi avevano trasferito temporaneamente a Wolfsburg, insieme ad altri due italiani, perché lì avevano bisogno di interpreti che aiutassero gli italiani appena entrati in fabbrica. Accettai volentieri, anche se non sapevo davvero cosa mi aspettasse. Diventai il punto di riferimento per 390 connazionali: venivo chiamato a tutte le ore del giorno e della notte. Oltre a fare un po‘ da mediatore e a fare traduzioni di routine, spesso capitava che di notte qualcuno in un reparto si facesse male e io dovevo accompagnarlo all‘ospedale. Rimasi a Wolfsburg solo sei mesi, poi chiesi di rientrare ad Hannover per tornare a lavorare nel mio reparto. La paga mensile era buona, tanto che iniziai a mettere da parte qualche soldino. Ora ero nelle condizioni di cercarmi una stanza tutta per me!
Un po‘ di razzismo
Purtroppo allora c‘era ancora molta diffidenza nei riguardi degli italiani o degli stranieri in generale, non era facile riuscire farsi affittare una stanza. Appena ti presentavi ti dicevano subito di no, senza nemmeno chiederti nulla. Allora io cambiai strategia. Siccome a me piaceva vestirmi bene e avevo un vestito molto elegante, iniziai a mettermi tutto in tiro per andare ai colloqui con i padroni di casa. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, finalmente riuscii e presi in affitto una stanza da solo. Ricordo che la prima cosa che il padrone di casa mi disse fu: «Niente visite!», cioè non si potevano portare donne o ospiti in camera. In effetti allora un po‘ di razzismo c‘era anche qui ad Hannover, anche se io personalmente non ho mai avuto grandi problemi. Ricordo che c’erano delle sale da ballo dove all‘ingresso vi era scritto in grande: «Ausländer verboten – vietato l‘ingresso agli stranieri» e a me dispiaceva perché ero un ragazzo e mi piaceva molto ballare. Oltre a ballare, mi piaceva anche ascoltare musica. Mi viene da ridere perché una delle canzoni che andavano molto di moda agli inizi degli anni Sessanta qui in Germania era »Zwei kleine Italiener« [9], che parlava di due piccoli italiani che sognavano Napoli. Io ascoltavo anche la musica tedesca, ma a me piaceva molto di più la musica italiana, soprattutto quella napoletana che sentivo prima di venir via dall‘Italia. In ogni caso la prima cosa che feci, appena ebbi messo da parte abbastanza soldi, mi comprai un apparecchio radio, che mi faceva molta compagnia. La sera ascoltavo Radio Praga [10] e la notte fonda ascoltavo Radio Londra per avere le informazioni che arrivavano dall‘Italia.
Per sapere qualcosa in più, il fine settimana, andavo alla stazione centrale di Hannover dove mi incontravo con altri italiani. Era il nostro luogo di ritrovo, chiacchieravamo e ci scambiavamo notizie e informazioni. Io però mi compravo anche i giornali italiani, sia la Gazzetta dello Sport sia il Correrie della Sera, perché a me è sempre piaciuto leggere. Poi ad un certo punto iniziai a sentire anche Radio Colonia [11], che mi faceva sentire come a casa, informando anche su quello che succedeva in Italia e in Germania. Nel frattempo, poiché sono sempre stata una persona piuttosto caparbia e con la voglia di migliorare e imparare cose nuove, nel 1964 decisi di frequentare un corso di 80 ore per diventare saldatore. E così alla fine ottenni il diploma di saldatore ad arco e ossigeno. Non contento, tra il 1977 e il 1978, non appena ne ebbi la possibilità, frequentai i corsi offerti dallo Stato italiano per ottenere il diploma di scuola media: finalmente potei coronare il mio sogno di poter studiare e concludere un ciclo di studi. Conservo il mio diploma con molta cura e tantissimo orgoglio.
Alla ricerca dei prodotti italiani
I prodotti italiani allora non si trovavano qui in Germania e ce li dovevamo portare da casa, quando andavamo in vacanza in Italia. Io mi abituai a mangiare tedesco, anche se non proprio tutto mi piaceva. Ad un certo punto, agli inizi degli anni Sessanta, aprì un negozio proprio davanti alla stazione di Hannover che iniziò ad importare spaghetti e altri tipi di pasta, pelati e alcuni generi alimentari italiani. Non era molto ma era già qualcosa. Solo negli anni Settanta la situazione cambiò: aprirono alcuni negozi di generi alimentari italiani e così era più facile trovare i prodotti di casa nostra.
Io, comunque, mi ero organizzato e con dei miei amici italiani, eravamo alla fine degli anni Sessanta, ogni tanto la domenica prendevamo la macchina e facevamo una gita a Liegi, in Belgio. Nella cittá, dove gli italiani erano arrivati già nel 1946 per lavorare nelle miniere, si teneva settimanalmente un grande mercato in cui si trovavano molti prodotti italiani, come ad esempio salumi, formaggi, conserve di pomodoro, pasta. Noi riempivamo completamente il baule della nostra Fiat 124 fino all‘orlo e poi rientravamo a casa.
La mia famiglia
Nel 1961, durante una giornata di festa in cui si ballava, conobbi Jutta, una bellissima ragazza tedesca. Iniziammo a frequentarci, anche se, i primi tempi, i suoi genitori non erano molto contenti che avesse una relazione con un italiano. Ci volle un po‘di tempo perché mi accettassero e mi considerassero parte della famiglia. Dopo cinque anni, il 23 giugno del 1966, ci sposammo e, dalla nostra unione, sono venuti al mondo due figli: Gianni, nato nel 1966, che lavora come consulente per la Volkswagen per il continente africano, e Guido, nato nel 1968, che è maresciallo capo della Polizia federale tedesca, di stanza all‘aeroporto di Hannover. Dopo tutti questi anni mia moglie ed io ci vogliamo ancora un sacco di bene e siamo molto orgogliosi dei nostri figli.
L‘impegno sportivo e sociale
Nel 1965, insieme ad alcuni amici ristoratori, creammo una delle prime associazioni sportive italiane della Bassa Sassonia, la Pro Patria di Hannover (la prima fu la Lupo di Wolfsburg). Qualche anno dopo, nel 1968, diventai Presidente dell‘Associazione, a condizioni davvero speciali.
Nel corso degli anni l‘Associazione sportiva aveva accumulato un debito di circa 1500 Marchi tedeschi e gli amici ristoratori iniziarono a litigare tra di loro perché nessuno voleva farsi carico del debito. Non c‘era altra soluzione che sciogliere la squadra. I giocatori però mi pregarono di diventare Presidente della squadra e di aiutarli ad andare avanti.
Io promossi una colletta tra i giocatori stessi, tra il personale del Consolato e anche presso l’Ufficio Personale della Volkswagen. Ricordo che tutti furono molto generosi: lo stesso capo del personale contribuì con 50 Marchi.
Nel giro di poco tempo estinsi il debito e la squadra potè continuare nella sua attività. Sono rimasto Presidente della società sportiva fino al 1996, quando purtroppo mi ammalai seriamente e nessuno se la sentiva di prendere il mio posto. E così, nel giugno di quell‘anno, finì per sempre la storia della Pro Patria. Oltre al calcio, che ho sempre amato e che ho nel cuore, per me l‘impegno politico e sociale sono sempre stati molto importanti. Dopo poco tempo che lavoravo alla Volkswagen, sono stato eletto delegato sindacale per la IG Metall[12], restandolo per oltre venti anni. In seguito, a metà degli anni Settanta, non appena fu costituita, entrai a far parte della Consulta degli stranieri della città di Hannover, quello che allora si chiamava Ausländerbeirat. Ci sono rimasto per 15 anni. Sempre in quegli anni mi iscrissi anche alla SPD, dove sono stato molto attivo: per due volte sono stato delegato dalla mia circoscrizione di Hannover all‘Assemblea nazionale del partito.
Sempre a metà degli anni Settannta mi impegnai per la costituzione del Comitato Consolare di Coordinamento delle Attività Assistenziali (CCCAA- oggi Com.It.Es), promosso a Wolfsburg dall‘allora Console d‘Italia Giuseppe Fusari. Nel 2003 sono stato eletto nel Seniorenrat della mia circoscrizione comunale ad Hannover, di cui ancora faccio parte. Nel 2005 ho fondato il Club Italia anni Cinquanta/Sessanta, un‘associazione pensata per mettere insieme tutte quelle persone che, come me, sono arrivate qui in Germania in quegli anni. L‘idea mi era venuta perché, purtoppo, ancora agli inizi del 2000, andavo alla stazione e incontravo le persone anziane che, non avendo altri luoghi e spazi, si ritrovavano lì come facevamo negli anni Cinquanta e Sessanta. Mi sembrava davvero triste e così, con il sostegno e l‘intervento dell‘allora Presidente del Com.It.Es di Hannover Giuseppe Scigliano ottenemmo una sede comunale gratuita dove potevamo incontrarci, svolgere attività insieme e fare piccole festicciole. Attualmente l‘Associazione è ancora attiva e io continuo ad esserne il Presidente.
Il 27 novembre 2016 il Consolato d‘Italia ad Hannover mi ha conferito l’onorificenza da parte del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella: il titolo di Cavaliere dell‘Ordine della Stella d‘Italia.
Nel mese di dicembre del 2021 sono stato eletto nel Comitato degli Italiani all‘Estero della Circoscrizione Consolare (Com.It.ES) di Hannover. Il Com.It.Es è l’organo di rappresentanza dei cittadini italiani residenti fuori dall‘Italia. Il mio impegno e lavoro a favore della comunità italiana in Germania non si fermano.
Biografia raccolta nel corso dell‘anno 2022. Redatta e curata da © Luciana Mella. Riletta e approvata da Luigi Gallinaro. Agosto 2022.
[1] «Formia ha subìto ingentissimi danni durante la Seconda Guerra mondiale, dapprima in seguito agli attacchi aerei sul suo importante nodo ferroviario poi anche per il cannoneggiamento dal mare e per esser stata per alcuni mesi in vicinanza del fronte di battaglia (…). Durante la campagna d’Italia fu base dei Tedeschi a tergo dello schieramento sul Garigliano, e da essi saldamente organizzata a sbarramento delle strade per Itri e Gaeta. Tenacemente difesa, durante la 2ª fase della battaglia del Garigliano (maggio 1944), dopo accaniti combattimenti durati 2 giorni, fu conquistata dalle truppe del II corpo americano (gen. G. Keyes) il 19 maggio». Si veda: <https://www.treccani.it/enciclopedia/formia_res-c9f59e80-87e5-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-Italiana%29/>.
[2] «Montecassino. La storica abbazia fu coinvolta, durante la Seconda Guerra mondiale, nelle operazioni svolte dal 26 novembre 1943 al 20 maggio 1944 dalle armate angloamericane (5ª e 8ª), durante la campagna d’Italia nel corso della 1ª fase della battaglia di Cassino. Riusciti vani gli sforzi compiuti per rompere la linea Gustav, gli Alleati si convinsero che la conquista di Cassino e il conseguente sbocco sulla via Casilina fossero ostacolati dalla presenza di forze tedesche organizzate a difesa dell’Abbazia (quota m. 516 s.l.m), fino a quel momento mai bombardata. In realtà nell’ambito dell’abbazia non vi erano Tedeschi (…). Il 14 febbraio gli Americani avvertirono, con volantini lanciati da un aereo, che, essendosi la guerra « ristretta intorno al sacro edificio« essi, per colpa dei Tedeschi che ne traevano vantaggio, erano costretti ad annientarlo (…). E all’indomani, si perpetrava una delle più orribili distruzioni della Seconda Guerra mondiale: la gloriosa abbazia, culla del monachismo occidentale e delle energie cristianizzatrici e civilizzatrici di tanta parte d’Europa, monumento mirabile di religione, di arte e di storia, finiva in un ammasso di macerie sotto la raffica di ripetute massicce incursioni aeree, eseguite da 227 fortezze volanti (…). Il bombardamento aereo fu ripetuto nei giorni 17 e 18 febbraio completando l’opera di distruzione (…)». Si veda:<https://www.treccani.it/enciclopedia/montecassino_res-7003fe7b-87e6-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-Italiana%29/>.
[3] Il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica Federale tedesca firmarono, il 20 dicembre 1955, l’accordo per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana nella Germania Federale.
[4] Per un quadro completo sull‘andamento migratorio dalla provincia di Caserta si veda il saggio di Toni Ricciardi, Migrazione e andamento demografico: da terra di lavoro a provincia di Caserta. In: Brevetti, G., Sodano, G., De Lorenzo, R., Franzese, P. 1818-2018 Caserta e la sua provincia. Santa Maria Capua Vetere: 2020. p. 183-191. Si veda: https://archive-ouverte.unige.ch/unige:145563.
[5] Il 22 giugno 1948 l’Italia firmò con la Svizzera il primo accordo per il reclutamento di manodopera italiana.
[6] La Terra di Lavoro è una regione storico-geografica dell’Italia meridionale, identificata in passato anche come Campania felix[1] e successivamente suddivisa tra Campania, Lazio e Molise. Con cambiamenti confinali nel corso dei secoli, essa fu una provincia del Regno di Sicilia e del Regno di Napoli, quindi del Regno delle Due Sicilie e infine del Regno d’Italia. Fu infine soppressa e suddivisa fra diverse province col regio decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 1927, durante il regime fascista. Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Terra_di_Lavoro
[7] Gerardo Zampaglione, Diritto consolare, Teoria e Pratica Volume I e I, (prima edizione) 1958, Casa Editrice Stamperia Nazionale, Roma (1970). Nato a Roma il 18 novembre 1917. Si laurea in giurisprudenza all’Università di Roma ed in scienze politiche il 31 luglio 1945. Si impegna nella lotta antifascista, partecipando alla guerra di Liberazione. Entra in carriera diplomatica nel 1949. Dal 1951 al 1954 è console a Toronto ; dopo un breve periodo al Ministero, nel 1955 viene nominato Console a Stoccarda, dove rimane fino al 1959 quando viene destinato all’Ambasciata a Rabat. Si veda: https://baldi.diplomacy.edu/diplo/biogra/zampaglione.htm .
[8] Nello stablimento di Hannover la VW produceva, dal 1956, il pulmino VW Transporter.
[9] «Zwei kleine Italiener», Conny Froboess, 1962.
[10] Radio Praga ha trasmesso dal 1950 al 1971 il programma in lingua italiana «Oggi in Italia», che aveva lo scopo di diffondere la voce del Partito comunista italiano da oltre cortina. Per un approfondimento si veda: Lorenzo Berardi, Radiocronache. Storie delle emittenti italofone d‘oltrecortina, Prospero Editore, Novate Milanese, 2022.
[11] Trasmissione radiofonica in lingua italiana messa in onda dal Governo tedesco nel 1960, nell‘ambito dell‘emittente pubblica WDR, destinata agli allora Gastarbeiter. La trasmissione esiste ancora oggi. Maggiori informazioni su Radio Colonia si veda: <https://www.lucianamella.it/wp-content/uploads/2020/03/RIM-2019.pdf >.
[12] La Industriegewerkschaft Metall, meglio conosciuta come IG Metall, in italiano Sindacato Industriale dei Metallurgici, è una federazione sindacale tedesca che rappresenta i lavoratori del settore metalmeccanico, in particolare l’industria automobilistica. Rappresenta 2 246 000 lavoratori. È la più grande e rappresentativa delle otto federazioni sindacali tedesche affiliate alla Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB) ed ha sede a Francoforte sul Meno.